Nascite al minimo, decessi al massimo. Le Marche stanno scomparendo

Minimo storico nelle nascite e record di decessi nel 2020 con la pandemia che ha fortemente peggiorato una dinamica demografica già molto preoccupante tanto che al 31 dicembre la popolazione residente nelle Marche è inferiore di quasi 17 mila abitanti rispetto all’inizio dell’anno: come se fosse sparita una città grande come S. Elpidio a Mare o Grottammare. E’ quanto emerge dai dati dell’ISTAT elaborati dall’IRES CGIL Marche.
Ancora più pesante il bilancio demografico rispetto al 2010 con 40 mila abitanti in meno, mentre in 10 anni hanno lasciato la regione per l’estero 43 mila persone, equivalenti ai cittadini di una città come Senigallia o Civitanova Marche. Un numero impressionante soprattutto se si considera che tra di loro ci sono tantissimi giovani in cerca di migliori prospettive di lavoro e di vita.


Preoccupa soprattutto la denatalità che peggiora a ritmi insostenibili: nel 2020 nelle Marche sono nati solo 9.429 bambini: record minimo storico. Rispetto all’anno precedente sono nati 241 bambini in meno (-2,5%) mentre sono addirittura 4.656 i nati in meno rispetto a 10 anni fa (-33,1%). Il calo delle nascite è un fenomeno nazionale che peraltro ha assunto un carattere strutturale, ma il trend registrato nelle Marche è più grave e preoccupante.
Prosegue anche la tendenza alla diminuzione della fecondità: nel 2019 il numero medio di figli per donna nelle Marche è sceso a 1,19 (1,27 la media nazionale). Valori particolarmente preoccupanti se si considera che una popolazione, senza movimenti migratori, per rimanere costante nel tempo dovrebbe avere mediamente 2,2 figli per coppia.
Contestualmente, nel 2020, i decessi nelle Marche sono stati 20.123, ovvero 2.681 in più rispetto al 2019 (pari a +15,4%, di poco inferiore all’incremento medio nazionale di +17,6%) che evidenziano gli effetti drammatici prodotti dall’epidemia Covid-19, pagati soprattutto dalle persone più anziane e fragili. Inoltre, per la prima volta i decessi sono più del doppio delle nascite.


Secondo Daniela Barbaresi, Segretaria Generale della CGIL Marche, «è urgente  affrontare il tema della denatalità con misure strutturali a sostegno della maternità e paternità, a partire da un’adeguata rete di servizi per l’infanzia, che nelle Marche, oltre ad essere complessivamente troppo onerosa per le famiglie, è assolutamente insufficiente, visto che solo a un bambino su quattro viene garantito un posto all’asilo nido».


«Occorre poi garantire adeguate prospettive di lavoro e reddito; lavoro stabile con la giusta retribuzione per consentire soprattutto ai più giovani di formare una famiglia e decidere di avere dei figli. Va ricordato che da luglio sarà operativo l’Assegno unico e universale per i figli, introdotto con la Legge di Bilancio 2021, per riordinare le misure a sostegno della genitorialità e che sostituirà assegno al nucleo familiare, detrazioni per figli a carico, assegno natalità, bonus bebè, bonus mamma e altre misure. Per conoscerne nel dettaglio le modalità di erogazione bisognerà aspettare i prossimi decreti attuativi».
«Sono altrettanto necessarie e urgenti misure a sostegno di una popolazione sempre più anziana e fragile, a partire da interventi per la non autosufficienza. Urgente poi completare rapidamente le vaccinazioni delle persone più anziane e fragili».

Dalla parte giusta della storia: perché stare con i riders in lotta – di Daniele Lanni

Negli ultimi anni, abbiamo imparato che l’utilizzo di una parola nella sua versione inglese nasconde spesso la volontà di trasformare un concetto che già esiste in qualcosa di più appetibile e carino.
Di per sé questo può non rappresentare un problema, anzi è tutto sommato una strategia di marketing legittima. Il problema si presenta quando ciò avviene nel mondo del lavoro: la trasformazione del ruolo nasconde in realtà la cessione di una serie di diritti minimi che, grazie a questa operazione, si fanno passare come «antichi e superati», in favore di un nuovo e sfavillante nome in inglese. È il caso dei riders.
Domani sarà il No Delivery Day: giornata nazionale di sciopero dei fattorini delle consegne delle piattaforme di delivery. E la situazione che riguarda loro mi sembra esattamente quella di cui si parlava qualche riga fa.
Un bel giorno, da qualche parte, sono nate le prime piattaforme che, come ricorderete, non facevano altro che mettere in contatto il cliente con il commerciante, il quale provvedeva per conto proprio a portargli la merce richiesta. È passato poco tempo prima di rendersi conto che si poteva allargare in maniera sensibile non solo l’utilizzo di questo strumento, ma anche il guadagno, prendendosi in carico tutta la catena della distribuzione.
Ed è proprio grazie a questa intuizione che sono nate le piattaforme che oggi tutti conosciamo per farsi portare a casa il cibo da qualsiasi ristorante. Ed è così che i fattorini, categoria che ancora esiste ed è contrattualizzata nel contratto nazionale della logistica, si sono trasformati in riders.
Un passaggio decisamente non indolore, che ha trasformato dei normali rapporti di lavoro, in rapporto di lavoro autonomo occasionale. In sostanza, un rider non è assunto dalla piattaforma (in genere multinazionali milionarie), ma è un collaboratore occasionale, pagato a consegna. Ciò comporta, ovviamente, zero diritti e zero garanzie. Né malattia, né ferie, né una normale retribuzione oraria, né la possibilità di eleggere dei rappresentanti sindacali, né niente di niente. E se non fosse stato per una causa fatta dal Nidil Cgil a Firenze, neanche le basi delle norme sulla sicurezza. Basti pensare che a inizio pandemia i riders dovevano provvedere per conto proprio a mascherine e guanti.
Questo sistema di pagamento a cottimo e di considerare questo rapporto di lavoro come sostanzialmente autonomo, con tutti i mancati diritti che ciò comporta, è stato anche legittimato dalla stipula di un contratto nazionale, che l’UGL (il sindacato che fu guidato da Renata Polverini per capirci) ha siglato con i datori di lavoro. Un contratto, che in gergo sindacalese, definiamo «pirata», perché l’organizzazione che lo firma non ha mandato dai lavoratori e lo fa solo per sterilizzare le battaglie che le organizzazioni confederali stavano portando avanti per la stipula di un vero contratto.
Comunque, arriviamo a domani, e allo sciopero che i riders hanno convocato, insieme al Nidil Cgil, in tutta Italia. Le richiesta sono molto semplici: disconoscere il contratto pirata applicando il contratto nazionale della logistica anche a loro, poter eleggere i propri rappresentanti sindacali, trattamento di fine rapporto, ferie, tredicesima, malattia, salute e sicurezza. Sono richieste di buon senso, che dovrebbero essere alla base di qualsiasi rapporto di lavoro. Purtroppo, evidentemente, così non è.
Per queste ragioni, appoggiare la loro battaglia è un segno di civiltà. Molti non avrebbero mai pensato, qualche anno fa, che ci saremmo trovati ancora oggi a combattere per diritti minimi e semplici, come il diritto alla malattia retribuita. Eppure eccoci qua. Come Nidil Cgil siamo al loro fianco e cerchiamo di dare una mano, con le cause che stiamo portando avanti contro alcune piattaforme, organizzandoci insieme quando riusciamo, e abbiamo costituito anche un coordinamento dei riders che sta facendo un lavoro eccelso in moltissime città in Italia.
Venerdì chiederemo a tutti di boicottare le piattaforme e non utilizzarle, come forma di solidarietà verso lavoratrici e lavoratori in lotta. La loro lotta è simbolica, perché è la battaglia contro il tentativo in atto di rendere normale che esistano rapporti di lavoro senza nessuna tutela, mascherati come lavori «nuovi» o «smart», lavoretti per studenti. In realtà se si guarda oltre quella che è la maschera, si vedranno migliaia di lavoratrici e lavoratori veri, in carne ed ossa, che sudano davvero, che lavorano senza sosta e senza orari, senza malattia, né nessuna tutela, con un datore di lavoro che è un algoritmo, ma a guardarlo meglio assomiglia tanto ad un padrone, come li si chiamava una volta.

Daniele Lanni

Lottare nella Regione più alt-right d’Italia. Intervista a Daniela Barbaresi (Cgil)

a cura di Mario Di Vito

Daniela Barbaresi è segretaria generale della Cgil delle Marche dal 2017. Avvocato, nel 1997 è entrata all’Ufficio Studi della camera del lavoro di Pesaro, poi una trafila tra Fiom, segreteria provinciale, Flc (scuola, università e ricerca), delega al mercato del lavoro, alle politiche giovani e alle donne in segreteria regionale. Come voce critica (e di lotta) della sinistra marchigiana non si è mai tirata indietro, nemmeno quando era il Pd ad amministrare la regione. Tanto più non si tira indietro adesso che le Marche sono passate alla destra e, agli occhi dell’opinione pubblica italiana, sono diventate una sorta di laboratorio dell’alt-right tricolore.

Barbaresi, come giudica la gestione della pandemia da parte dell’amministrazione di Francesco Acquaroli?

«Sicuramente non è soddisfacente. Stavo guardando i dati proprio adesso, e purtroppo li stavo guardando sui giornali online, visto che le informazioni della Regione sono, come dire, poco utilizzabili. La cosa che più preoccupa è la situazione all’interno degli ospedali. Siamo i peggiori a livello nazionale: i pazienti covid nell’area medica sono al 64% dei posti letto occupati, quando la soglia critica è al 40%. Sul fronte delle terapie intensive siamo al 60% e peggio di noi c’è solo la provincia di Trento, mentre il 30% è già considerato soglia critica. Insomma, siamo ben oltre l’emergenza. C’è poi un altro problema che emerge dai numeri: ci sono 135 pazienti parcheggiati al pronto soccorso perché mancano i posti letto negli altri reparti».

E la risposta della Regione è mancata.

«Esatto. Solo poche settimane fa, poco prima di diventare zona rossa, Acquaroli si preoccupava di rassicurare i ristoratori dicendo loro che presto avrebbero potuto riaprire di sera. Ecco, questo è il livello di responsabilità che ha il nostro presidente. La verità è che è stato perso tantissimo tempo. Si vantava del fatto che fossimo rimasti zona gialla, come se fosse un merito, mentre in realtà tutti sapevano che si stavano diffondendo focolai ovunque. Non ha voluto fare delle scelte, certamente difficili ma dovute da parte di una persona nella sua posizione. La cosa allucinante, poi, è che ogni volta si trovava costretto a dover prendere una decisione, si preoccupava sempre di scaricare la responsabilità su altri: il governo, i sindaci… Era sempre colpa di qualcun altro».

E voi, come Cgil, come vi siete comportati rispetto a tutto questo?

«Come sindacato non abbiamo mai fatto sconti alla passata amministrazione di Luca Ceriscioli, anzi, lo abbiamo attaccato ferocemente ad esempio sul Covid Hospital di Bertolaso a Civitanova. Tuttavia gli abbiamo sempre riconosciuto una certa fermezza nel gestire la situazione, anche andando allo scontro diretto con l’allora governo Conte sulla chiusura delle scuole, alla fine del febbraio del 2020. Adesso invece, la sensazione è che la gestione della pandemia sia allo sbando. Mi colpisce una cosa…».

Cosa?

«Noi non incontriamo l’assessore alla Sanità (Filippo Saltamartini della Lega, nda) da novembre. Per dire il livello delle relazioni quando ci sarebbe bisogno del coinvolgimento di tutti… Comunque, in quell’occasione, Saltamartini ci disse molto candidamente che il tracciamento era già fuori controllo. Non erano in grado di garantirlo, in pratica. E così, consapevoli di questo fatto piuttosto pesante, si sono lanciati in un’altra operazione deleteria: lo screening di massa, che ha assorbito risorse umane ed economiche che invece sarebbero servite per tracciare. I nostri medici, iscritti alla Funzione Pubblica, ce lo dicevano che non serviva a niente. Qui nelle Marche arriviamo sempre in ritardo rispetto alle altre regione e ne rifacciamo gli stessi errori».

Sul fronte del personale medico come vanno le cose?

«C’è mancanza di personale, assolutamente, soprattutto di infermieri. I concorsi che sono stati fatti nel pubblico hanno sottratto personale alle strutture residenziali, per lo più gestite da privati. Questo non fa ben sperare per il futuro, perché potrebbero esserci ancora problemi molto grandi su quel fronte. Se non si garantisce l’assistenza in quelle strutture, per farla breve, molti finiranno all’ospedale. C’è poi un’altra cosa che davvero lascia perplessi: la vaccinazione sui posti di lavoro».

Ce lo può spiegare?

«A un certo punto la Regione ci ha chiamato per proporci questa soluzione, cioè di vaccinare sui posti di lavoro. Detta così, non possiamo che essere favorevoli. Però manca la certezza che i soggetti prioritari siano già stati vaccinati e questa non c’è. È chiaro che manca una regia nazionale, ma noi siamo andati oltre: troviamo i commercialisti e gli avvocati tra i soggetti da vaccinare. Siamo al “venghino signori venghino”. Un conto è chiamare tutte le forze economiche e sociali a soccorso del pubblico, un conto è aprire, sostanzialmente, al mercato dei vaccini».

Un giorno, bene o male, riusciremo a venire fuori da questa situazione. Quale mondo del lavoro ci aspetta a quel punto?

«In parte lo stiamo già vedendo. Siamo molto preoccupati rispetto al confronto con il governo sulla riforma degli ammortizzatori sociali. Però, ecco, il prezzo lo stiamo già pagando in maniera molto pesante. Se guardiamo gli ultimi dati dell’Istat, scopriamo che abbiamo perso già migliaia di occupati, per lo più donne. E c’è un dato che è pericolosissimo: aumentano gli scoraggiati, cioè quelli che il lavoro manco lo cercano. Negli ultimi mesi del 2020 si è fatto grande ricorso agli ammortizzatori sociali, circa 130.000.000 di ore, che equivalgono al mancato lavoro di 60.000 persone a tempo pieno. Questo ci dà la misura di quanto potrebbe succedere quando non ci sarà più il blocco dei licenziamenti. Sin qui hanno perso il lavoro per lo più i giovani e le donne, ovvero le fasce più marginali. Di qui a breve ci sarà il rischio di perdere il lavoro stabile. Di tutti questi temi, però, non siamo mai riusciti a parlare con la Regione».

Giusto per riassumere, quanti incontri avete avuto sin qui con l’amministrazione?

«Dunque, abbiamo avuto due incontri con il presidente Acquaroli e con l’assessore Guido Castelli il 23 dicembre e l’8 gennaio. C’erano alcuni punti sul tavolo: il lavoro, lo sviluppo, la ricostruzione post sisma, la sanità, le politiche sociali. Da parte loro, va detto, c’è stata grande disponibilità a discutere, ma poi non è successo niente. L’assessore al lavoro (Stefano Aguzzi di Forza Italia, nda) lo abbiamo incontrato a fine gennaio. Abbiamo capito che la tendenza è quella di dare contributi alle aziende sperando nel loro buon cuore, senza una strategia vera. Non parlo del Recovery Plan perché non c’è niente da dire: ci hanno inviato un centinaio di schede progettuali che avevano già consegnato al governo prima di Natale. Semplicemente hanno aperto i cassetti e hanno preso quello che ci hanno trovato dentro. Si tratta per lo più di interventi infrastrutturali, niente lavoro e niente ipotesi di ricadute sul piano dell’occupazione. Non sappiamo quale sia la strategia regionale sull’emergenza, sul rilancio, sul futuro… Nel Def regionale, approvato insieme al bilancio, sulle politiche di sviluppo c’erano appena 2 pagine su 150…».

Oltre a tutto questo, che già sarebbe abbastanza inquietante, da quando si è insediata la destra, le Marche sembrano essere diventata una regione piuttosto ostile ai diritti delle donne.

«Be’ sì, ormai finiamo tutti i giorni ai disonori della cronaca nazionale per i deliri di certo personaggi, che però non sono i matti del paese, ma figure di primo piano della politica regionale: parliamo di assessori, di capigruppo… Il problema, comunque, non è solo nelle dichiarazioni ma anche nei fatti concreti. Ad esempio, hanno deciso di non applicare le linee guida del ministero della Sanità sulla Ru486. Peraltro, sapevamo che lo avrebbero fatto, Acquaroli lo aveva ampiamente annunciato durante la campagna elettorale. Poi ci sarebbe da parlare della legge sulla Famiglia: lì il problema non è tanto il richiamo alla famiglia naturale, che è un concetto espresso anche nella Costituzione. Il problema è che dentro quella legge hanno messo anche la tutela della vita sin dal momento del concepimento. In pratica, stanno negando in toto la Legge 194. E ancora: la legge sui consultori. L’apertura ai privati è prevista dalla legge, e va bene, ma la Regione lo declina come un regalo, non come una possibilità. Non siamo pregiudizialmente contrari ai servizi gestiti in maniera convenzionata, ma prima di aprire ai privati e utilizzare risorse pubbliche per sovvenzionarli, bisognerebbe mettere mano ai consultori pubblici. Qui la situazione è delirante, non c’è personale nemmeno per le attività minime. Senza contare il fatto che c’è un numero di obiettori altissimo e che quindi non si riesce nemmeno ad ottenere l’interruzione di gravidanza. Ci sarebbe piaciuto, insomma, vedere un potenziamento del pubblico prima dell’apertura totale ai privati. Lo dicevamo a Ceriscioli e lo ribadiamo anche adesso».

Avete mai avuto modo di discuterne con la Regione?

«Abbiamo chiesto più volte all’assessora Latini (Lega, nda) di riceverci, ma lei non ha mai voluto incontrarci».

Mario Di Vito