Negli ultimi anni, abbiamo imparato che l’utilizzo di una parola nella sua versione inglese nasconde spesso la volontà di trasformare un concetto che già esiste in qualcosa di più appetibile e carino.
Di per sé questo può non rappresentare un problema, anzi è tutto sommato una strategia di marketing legittima. Il problema si presenta quando ciò avviene nel mondo del lavoro: la trasformazione del ruolo nasconde in realtà la cessione di una serie di diritti minimi che, grazie a questa operazione, si fanno passare come «antichi e superati», in favore di un nuovo e sfavillante nome in inglese. È il caso dei riders.
Domani sarà il No Delivery Day: giornata nazionale di sciopero dei fattorini delle consegne delle piattaforme di delivery. E la situazione che riguarda loro mi sembra esattamente quella di cui si parlava qualche riga fa.
Un bel giorno, da qualche parte, sono nate le prime piattaforme che, come ricorderete, non facevano altro che mettere in contatto il cliente con il commerciante, il quale provvedeva per conto proprio a portargli la merce richiesta. È passato poco tempo prima di rendersi conto che si poteva allargare in maniera sensibile non solo l’utilizzo di questo strumento, ma anche il guadagno, prendendosi in carico tutta la catena della distribuzione.
Ed è proprio grazie a questa intuizione che sono nate le piattaforme che oggi tutti conosciamo per farsi portare a casa il cibo da qualsiasi ristorante. Ed è così che i fattorini, categoria che ancora esiste ed è contrattualizzata nel contratto nazionale della logistica, si sono trasformati in riders.
Un passaggio decisamente non indolore, che ha trasformato dei normali rapporti di lavoro, in rapporto di lavoro autonomo occasionale. In sostanza, un rider non è assunto dalla piattaforma (in genere multinazionali milionarie), ma è un collaboratore occasionale, pagato a consegna. Ciò comporta, ovviamente, zero diritti e zero garanzie. Né malattia, né ferie, né una normale retribuzione oraria, né la possibilità di eleggere dei rappresentanti sindacali, né niente di niente. E se non fosse stato per una causa fatta dal Nidil Cgil a Firenze, neanche le basi delle norme sulla sicurezza. Basti pensare che a inizio pandemia i riders dovevano provvedere per conto proprio a mascherine e guanti.
Questo sistema di pagamento a cottimo e di considerare questo rapporto di lavoro come sostanzialmente autonomo, con tutti i mancati diritti che ciò comporta, è stato anche legittimato dalla stipula di un contratto nazionale, che l’UGL (il sindacato che fu guidato da Renata Polverini per capirci) ha siglato con i datori di lavoro. Un contratto, che in gergo sindacalese, definiamo «pirata», perché l’organizzazione che lo firma non ha mandato dai lavoratori e lo fa solo per sterilizzare le battaglie che le organizzazioni confederali stavano portando avanti per la stipula di un vero contratto.
Comunque, arriviamo a domani, e allo sciopero che i riders hanno convocato, insieme al Nidil Cgil, in tutta Italia. Le richiesta sono molto semplici: disconoscere il contratto pirata applicando il contratto nazionale della logistica anche a loro, poter eleggere i propri rappresentanti sindacali, trattamento di fine rapporto, ferie, tredicesima, malattia, salute e sicurezza. Sono richieste di buon senso, che dovrebbero essere alla base di qualsiasi rapporto di lavoro. Purtroppo, evidentemente, così non è.
Per queste ragioni, appoggiare la loro battaglia è un segno di civiltà. Molti non avrebbero mai pensato, qualche anno fa, che ci saremmo trovati ancora oggi a combattere per diritti minimi e semplici, come il diritto alla malattia retribuita. Eppure eccoci qua. Come Nidil Cgil siamo al loro fianco e cerchiamo di dare una mano, con le cause che stiamo portando avanti contro alcune piattaforme, organizzandoci insieme quando riusciamo, e abbiamo costituito anche un coordinamento dei riders che sta facendo un lavoro eccelso in moltissime città in Italia.
Venerdì chiederemo a tutti di boicottare le piattaforme e non utilizzarle, come forma di solidarietà verso lavoratrici e lavoratori in lotta. La loro lotta è simbolica, perché è la battaglia contro il tentativo in atto di rendere normale che esistano rapporti di lavoro senza nessuna tutela, mascherati come lavori «nuovi» o «smart», lavoretti per studenti. In realtà se si guarda oltre quella che è la maschera, si vedranno migliaia di lavoratrici e lavoratori veri, in carne ed ossa, che sudano davvero, che lavorano senza sosta e senza orari, senza malattia, né nessuna tutela, con un datore di lavoro che è un algoritmo, ma a guardarlo meglio assomiglia tanto ad un padrone, come li si chiamava una volta.
Daniele Lanni